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domenica 10 aprile 2011

favole 16

Gente della Garfagnana

Lo scenario di questa storia è l’incantevole valle del Serchio, che divide in verticale tutta la Garfagnana.

La vecchia casa della Borella si stava colorando di luce rossastra del crepuscolo ed io mi accingevo a raggiungerla dopo una serata trascorsa nel piano, in casa dei nonni ad ascoltar le vecchie e sempre attuali storie della grande guerra.
Quel pomeriggio in particolare il racconto del vecchio Gianni, amico di mio nonno,  mi appassionò a tal punto da mettermi a sedere sulla panca accanto al fuoco acceso e ripercorrere tutta la storia a ritroso.
Preso dalla stanchezza mi addormentai appoggiato alla parete calda del camino e iniziai a sognare l’evento della giornata. 
Una ripida china sterrata portava al sagrato della chiesetta, poco sopra gli alti argini del fiume, ne costeggiava poi il fianco, per voltare improvvisa verso il guado, fitto di pioppi e vetrice.
Dopo la curva appariva un casolare isolato, nel punto in cui la vallata percorsa dal fiume si apriva in una grande radura invasa dai tronchi trasportati dall’ultima piena.
Da quel punto la valle si allargava in modo da vedere le alte montagne innevate che la circondavano, all’inizio alte colline, poi più in su lo sguardo correva e lo spettacolo delle selve che facevano da corona al fiume, fino alle alte montagne spoglie del verde, ma rasserenanti l’animo.
Tante di queste case di montagna erano abitate molto prima della guerra da boscaioli, pastori o cavatori di marmo, poi in parte abbandonate dai valligiani, emigrati per lo più in Inghilterra o nella lontana America.
Ho chiuso gli occhi dal sonno e in quel momento si è presentata lei: la Cesira, la Cesa come tutti la chiamavano e anche noi la chiameremo così.
Mi è apparsa con quell’aria gracile piena di acciacchi, mesta ma sempre con il sorriso sull’esile bocca, posto in risalto da una corona di capelli grigi attorcigliati sopra la nuca come una cipolla.
Era lei che abitava quella casa nel periodo dell’ultima guerra.
Cesa aveva un modo tutto suo di concepire la vita, come si suol dire era tutta casa e chiesa.
La notte di luna inondava di luce il paesaggio sommerso da una coltre delle lucciole e lei indifferente dalla finestra di casa guardava l’erba tagliata quel giorno per fare il fieno, o le stoppie del maggese appena raccolto, o i sarmenti dei lunghi filari di vite, il domani era per lei un altro giorno di fatica.
Cesa naturalmente non viveva sola gli faceva compagnia il fratello Ottavio, uomo dalla stazza imponente, antenato della razza Celtica dominante nella Garfagnana negli anni 1000, di poche parole con un carattere che prendeva fuoco con nulla, specialmente quando aveva bevuto un bicchierotto di troppo di quel vinello che veniva dalla sua vigna.
Questi due fratelli non avevano avuto un gran che dalla vita,
per loro il mondo finiva in cima alle montagne, o dove si perdeva il fiume.
Chiusi in quell’ambiente di montagna i loro passatempi erano la raccolta dei funghi o quello delle ciliegie, e ancora poco di più come la confusione che si creava quando nell’aia davanti casa si radunavano gli amici e parenti per la battitura del grano, nel periodo autunnale il passatempo che era anche un lavoro era la raccolta delle castagne ( quante polente d’inverno ), le funzioni religiose della domenica per poi fare la chiacchierata con gli amici sul sacrato della chiesa.
Dopo cena, al lume di una lanterna salivano la breve scala interna di legno che portava alle loro camere e all’altana, al primo piano di quel casolare assai malandato.
Tutto intorno si faceva buio e un gran silenzio avvolgeva la casa; silenzio rotto da qualcosa che cadeva sul pavimento della Cesa fatto di robuste assi di castagno, poi la quiete assoluta.
Incuriosito mi domandai, ma questi due non hanno mai niente da dirsi? Neanche quando sono a tavola aprono bocca per confidarsi qualcosa o quello che èn successo durante la giornata?
Qualche volta entravo a trovarli, nella piccola cucina si sentiva solo l’odore stantio del fumo e la stanza era illuminata d’estate da una lanterna a petrolio, mentre nell’inverno dal bagliore delle fiamme che ardevano nel camino.
Traspariva in quel posto qualcosa di composto, di arcaico, di accettazioni benigne di tutto quello che succedeva, e questo ti metteva a tuo agio.
Il mattino seguente l’Ottavio scendeva la scala di buonora e entrava nella stalla per governare l’unica giovenca che cera e il vecchio mulo.
Le galline e i conigli erano di competenza della Cesa.
Intabarrato per il tempo freddo della mattina Ottavio si avviava con passo lento per il sentiero sassoso e andava a lavorare su per le selve per la pulizia del sottobosco dove avrebbe raccolto le castagne e per raccattare la legna per l’inverno.
Il casolare rimaneva avvolto dai grossi pioppi che quasi dalla strada non si vedeva , la Cesa apriva il pesante uscio di casa che con il solito scricchiolio faceva scappare gli uccelli, usciva e munita di coltello e cestino fatto con i giunchi essiccati delle vetrice, si dirigeva verso l’argine alto del fiume per la raccolta del radicchio selvatico e l’erba da cuocere.
Rompevano il silenzio di quel luogo incantato lo scrosciare del fiume, il gracidare delle rane, i passi sul sentiero ciottoloso di qualcuno che era andato a fare un fastello di rame fresche per i conigli e all’improvviso il suono della campana di mezzogiorno.
Sull’aia davanti casa i polli della Cesarina razzolavano indisturbati, come la chioccia con un esercito di pulcini al seguito.
Alla sera silenziosa e trepida la Cesira aspettava suo fratello Ottavio stando seduta su una pietra accanto all’uscio di casa dove da li poteva vedere in lontananza oltre l’insenatura del fiume, verso la meraviglia dei monti sopra la valle.
Trascorre monotono e abituale il tempo fino a che si iniziarono a percepire le prime avvisaglie dell’avvicinarsi della guerra e proprio poco sopra, nel monte passava la linea Gotica.
Era l’estate del ’44; la casa fu invasa da sfollati, parenti e amici del paese che rimaneva un po’ sopra arroccato al monte e quello era un posto abbastanza sicuro essendo nascosto dall’alta vegetazione del fiume e avendo il sottosuolo della casa molto grande e protetto, altri preferirono rifugiarsi nei metati dispersi nelle selve, anche se per la notte era problematico poterci dormire.
Cesarina nonostante non avesse molto da offrire metteva giornalmente a tavola molte persone con i prodotti che l’orto o quello che i campi in quel momento potevano offrire.
Anche Ottavio si era prodigato per i malcapitati sfollati offrendo ad ognuno un posto per dormire e poter trascorrere il meglio possibile quel brutto periodo della guerra.
Dal canto loro ripagavano tanta ospitalità con tutto quello che cera da fare nella stalla, nei campi, o raccogliendo le legna per l’inverno.
Una mattina un gruppo di soldati tedeschi fece irruzione nella casa e pretendevano che qualcuno li guidasse in un paese sperduto su per i moti.
Chi, se non Ottavio, poteva offrirsi come guida? Lui la conosceva quella zona! E poi, era il più anziano fra gli uomini!
Il povero Cristo si mise la giubba e con malavoglia fece capire ai soldati che sarebbe stato lui ad accompagnarli, mentre le donne lo rassicuravano consigliandolo come comportarsi per non trovarsi a mal partito con i tedeschi.
Ubbidiva docile mentre il suo carattere si ribellava a questa cosa, ma lo doveva fare per il bene di tutti, un povero montanaro costretto a partecipare in quel modo alla guerra.
La Cesarina scostò le tendine della finestra e guarda il suo Ottavio camminare per quella strada sassosa davanti ai soldati, e iniziò a piangere perché pareva che lo conducessero alla fucilazione.
Passarono le ore e il casolare si avvolse nelle tenebre, animato da tante persone in ansia, le donne pregavano mentre gli uomini discutevano a bassa voce di come il poveruomo si sarebbe potuto comportare in quella difficile situazione conoscendo il carattere.
Ogni tanto un ballettare di candela illuminava gli infreddoliti e trepidanti sfollati, un insieme di voci
preoccupate nel lento scorrere della notte.
Nell’attesa Cesarina si angosciava e spiava ogni rumore che veniva dal di fuori, da quella strada talmente acciottolata che bastavano i passi della volpe, o di una lepre per far si che si sentisse il rumore nella notte.
I suoi pensieri andavano a quando piccoli lei e Ottavio correvano felici su qui monti, non per necessità come accadeva oggi ma per puro spirito di libertà, la gioia di vivere in quel paradiso.
Trascorsa la lunga notte Ottavio tornò ai primi chiarori dell’alba: stanco sì, ma sereno e felice, anche lui desideroso di rivedere sua sorella .
Tutti e due che nella lunga vita trascorsa insieme di rado avevano parlato o scambiato qualche confidenza, adesso avevano capito che l’uno non poteva fare a meno dell’altro.
Trascorrevano i giorni in eguale maniera come sempre e la paura la faceva da padrona in quella situazione di guerra, quando al volgere dell’estate in quelle zone di montagna passò il fronte, proprio li si intensificarono i bombardamenti degli alleati e quella casa sul fiume divenne un facile bersaglio.
Un pomeriggio faceva ancora caldo così tutti gli sfollati si erano allontanati per la campagna o lungo il fiume , mentre Ottavio riposava nel suo letto combattendo una dolorosa sciatica quando all’improvviso il tuonar dei cannoni lo fecero trasalire ma non potendosi muovere decise di rimanere lì pensando fra se e se che se doveva morire qual posto migliore che il suo letto.
La sorte quasi sembrò averlo ascoltato quando una granata cadde sulla casa proprio vicino alla camera di Ottavio, una parte del tetto rovinò e le macerie ricoprirono il povero vecchio ferendolo gravemente.
Grondava sangue dal volto, e una gamba rotta , sembrava oramai rassegnato mentre veniva soccorso, e la povera Cesarina lo guardava dolente, con amore di sorella.
La casa era stata danneggiata in maniera abbastanza grave da non poter ospitare più gli sfollati che, nel frattempo, prese le proprie cose si diressero, verso la canonica per un sicuro rifugio.
Ottavio, dolorante veniva curato alla meglio dalla sorella e da alcuni amici rimastigli vicini e dopo molte ore fu trovato un mezzo di fortuna per il trasporto in un posto dove lo potevano curare.
Nel tragitto tra la vecchia casa e la canonica gli sfollati tristi e angosciati per gli eventi passarono per quella stradina tutta acciottolata che costeggiava il fiume, dando un ultimo sguardo tutto intorno, non più prode fiorite, non più il fruscio dell’acqua del fiume, non più paesaggi incantati volgendo lo sguardo verso le montagne, non più l’amicizia sincera di quei bravi montanari.
Il terrore li occupava interamente e li spingeva al riparo dalla morte.
Passata la guerra, Cesarina e Ottavio ripresero possesso della loro casa e da buon montanari, operosi e cocciuti  ripararono i danni delle cannonate e riportando all’antico splendore il casolare e i terreni, solo la strada rimase acciottolata, ma si vede che per il bello del panorama doveva rimanere così.
Tutti ritornarono ai loro borghi, a riprendere il quotidiano di una volta, o almeno quello che ne era rimasto per iniziare una nuova vita.
Di voi amici sinceri Cesarina e Ottavio  che li avete accolti un continuo ricordo.   

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