Un saluto

Metti un saluto

A te che leggi questo blog, di passaggio o con quotidianità, a te che credi o anche no, scrivi "un qualcosa" nei commenti, per esempio: il tuo nome o nickname, dove vivi, l'età, una frase, un saluto o quello che preferisci...

Esprimiti con un "messaggio"...

Un modo come un altro per interagire, per mandare un segnale, per dire "io ci sono"...

Il ringraziamento è anticipata Un saluto.

Foto

Foto
Le mie scritture

domenica 10 aprile 2011

storielle 17

La ballata dello zoppo
E’ una sera di fine estate e l’aria si mantiene ancora molto calda, svogliato e stanco, dopo una giornata di duro lavoro mi stendo comodo sulla mia amaca in giardino.
Passano pochi minuti e qualche zanzara che mi addormento e inizio a sognare.
E’ una vecchia storia che i miei nonni da bambino mi raccontavano, (La ballata del bardo ( poeta, cantore celtico) zoppo)
“Questa è la ballata del bardo zoppo, che da solo e in una notte di tempesta, conquistò il campo dei romani.
In vite precedenti egli fu guerriero, cacciatore, orso e lupo.
Ed ora era rinato nelle spoglie di un cantore per non disperdere nel vento, le memorie dei suoi occhi.
Suo foriero fu il nero nobile Corvo, che portò una folata di oscuro presagio sull’ancor ignaro nemico.
Quella notte il cielo schiuse i suoi confini e precipitò a terra su campi e foreste in rapide e fredde stilettate di violenta pioggia, non v’era riparo ad essa, ne fuoco forte abbastanzaper contrastare tanta naturale irruenza.
Un giro della volta buia, portò il suo respiro accanto all’accampamento avversario,
ove la guardia ormai cedeva ai sinuosi tentacoli del sonno ristoratore.
All’alba il campo intero cadde in un sonno ipnotico e profondo, così il bardo lasciò il
segno dolce e amaro, e la sua venuta in territorio ostile, avvenne senza colpo ferire,
e alla sua lenta e lieve dipartita, un drappo della sua casata immortale, aleggiava carezzato dal sole, nel mezzo del campo sconfitto!”
I rievocatori del campo romano si erano insediati con le loro tende e le fortificazioni tutt’attorno, nei pressi del cerchio del falò e dei combattimenti, e tutt’attorno nell’area del rassegna, serpeggiava il rancore dei galli e dei celti che si sentivano defraudati da quella presenza storicamente corretta ma incongrua con l’umore generale.
Nell’aria si respirava odore di scontro imminente, oltre che di pioggia, e non mancavano i momenti di tensione durante le esercitazioni delle legioni e l’indigenza delle tribù e dei clan stanziali si faceva consistente.
Io ero nuovo di quelle terre, ma per varie doti che qui non vi sto a svelare, mi ero fatto amici molti capi tribù, guerrieri, artigiani ma soprattutto donne degli accampamenti.
Mi arrivò insistente la notizia di un imminente attacco al campo dei romani nella notte di sabato, proprio al culmine dei festeggiamenti, dove idromele, sidro, cervogia, birra, vinum e ipocrasso, avrebbero certamente offuscato la vista della maggior parte dei presenti, romani compresi.
Io mi lasciai reclutare ma solo per creare azioni diversive, datosi che nella notte prima, la famosa notte dei fuochi di San Giovanni, avevo camminato sul fuoco ed ero tra i pochissimi quasi illesi, zoppicavo un po’.  Ero io il bardo zoppo, lo ammetto.   
Ma sentite il resto della storia:  I festeggiamenti impazzavano, la musica saliva alta nel nero della notte senza stelle, il vento si alzava possente e oscure nuvole portavano il loro pesante carico sopra le nostre teste.
Alle porte del campo romano già sotto assedio, il Falco, membro a quel tempo del clan dei (Lupi fulvi) in testa a tutti appena fuori dalle corde dell’insediamento avversario urlava con tremenda voce immonde nefandezze alla volta dell’incolpevole drappello di guardia.
Lo spirito delle bevande elevate agli dei muovevano e agitavano i loro pensieri e Tutai
( Dio della pioggia) ad un certo punto pensò bene di levare anch’Egli la sua voce dal cielo, per far tacer quella degli uomini che correvano a ripararsi per ogni dove, mentre una fitta coltre di pioggia flagellava l’intera area della manifestazione.
Solo due occhi rimasero piantati sul campo dei romani, nascosti nell’acquitrino che si era formato, imperturbabili scrutavano oltre quelle temute corde, dove persino i cani preposti alla guardia giacevano nelle tende.
Nessun fuoco in quel campo si salvò, solo nella tenda delle sentinelle una scintilla trovò riparo effimero dall’acqua, troppo effimero per sopravvivere, troppo debole per ripopolare i bracieri ormai spenti, una volta terminata la buriana.
Verso l’alba il campo sguarnito di guardie, tutte miseramente addormentate perché provate da quell’acquazzone, era alla mercé di colui che pazientemente aveva atteso il momento propizio, e mentre tutti dormivano, entrò attraverso quelle corde,  e con tutta calma si fece ispirare da quanto vedeva e sentiva,  armi accatastate in disordine, respiri pesanti e il russare dei ricoverati nelle tende, scudi usati come grondaie.
In quel momento il bardo, si sentì l’uomo più potente del mondo!
Tutto avrebbe potuto far di quel campo, il destino e la reputazione di quei malcapitati era a sua volontà.
Ogni tenda ebbe la sua dedica letteraria, perché in versi espresse a tutti i suoi pensieri, tra le tende piantò una picca alla cui più alta estremità aveva legato un lungo laccio strappato dal tartan del suo kilt, e quasi fece per uscire, quando voltandosi vide l’amara vergogna che aleggiava in tutti i gesti tangibili che su quel campo aveva lasciato, pesanti come macigni sulle coscienze di quanti, poche ore più tardi si sarebbero ritrovati così colpiti dalle sue parole vergate in versi.
Decise allora di alleggerire quell’onta e nel mezzo del campo pose uno scranno, sul quale in bella vista lasciò il suo rancio notturno ancora intatto:
Un boccale diligentemente coperto e strapieno di dolce vino e frutti di bosco.
La soddisfazione ora era massima, il segno adesso era dolce e amaro, e soddisfatto io, il bardo uscii lentamente e zoppicando, per andare a coricarmi al mio giaciglio fatto di spessa pelle di vacca e morbida lana, per godere di un paio d’ore del sonno dei giusti.
Al mio risveglio una insistente voce circolava:”il campo dei romani stanotte è stato violato!”.
Andai da una delle donne di cui sopra vi parlavo, molto amiche del mio gentil poetare, e portatala a uno scoccar di freccia dal campo romano le chiesi: “ Vedi quella picca piantata tra le tende dei romani?”
Lei mi rispose: “Sì, ha una striscia di stoffa che svolazza, attaccata sopra.”
Allora mi guardò, notando la medesima stoffa sul mio kilt e sgranando gli occhi e con una risata altisonante mi abbracciò dicendo: ”Allora sei tu quello di cui parlano”, e la memoria del mio gesto fu cosa alquanto gradita anche dalla legione a quanto pare, dato che da nobili cuori lasciarono tutti i segni del mio passaggio esattamente dove li avevo posti.  Anzi!
Il centurione una volta conosciutomi ebbe l’ardire di presentarmi una misura spropositata di vinum nostrum, probabilmente Barbera
, per brindare a suo dire, all’invasione e all’incursione più intelligente e garbata che avessero mai subito da parte di qualunque altro celta o presunto tale, nella storia delle manifestazioni, rievocazioni e festival!
Questa è la mia memoria di quei fatti, e questo il luogo dove voglio porre le mie parole a testimonianza di tutto l’affetto e il sentimento che animano il mio cuore ogni volta che ci ripenso.
Questo è il mio tributo a una manifestazione che rimarrà immortale nel mio animo di bardo.
Tutto questo e ben altro ancora è stato per me e per molti.
A un certo puntomi sono svegliato, sentivo la voce austera ( da celtica) di mia moglie che mi chiamava, mi aveva perso, non l’avevo avvisata che sarei andato in giardino.
Fra me e me ero felice per il sogno che avevo fatto.


Nessun commento:

Posta un commento