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Le mie scritture

lunedì 11 aprile 2011

Poesie Bolognana 1

Ricordi di Bolognana

Vago è il ricordo delle antiche storie
quando bambino mia madre mi narrava
della tua gente e come tribolava…
fra le umide rughe impregnate di vita.   

Indefinibile stagione ora vivi
fra nuove luci e le quotidiane pietre,
tra residenze sconosciute
eppur fra muri antichi
tra sussulti nuovi  e verdi castagni.

Anche se perduto hai il tuo dialetto
sento ancor fra le amate rughe  
l’odore di piatti sobri,
di antichi sapori.

Al tempo in cui sulle grigie pietre
si addormentan  immagini vaghe,
dal Serchio la sfuggevole acqua
racconta del tempo lontano.

Addio agli amici

Un di d’autunno piovigginava  
sui fianchi rocciosi,
su desolati pascoli
sull’altana abbandonata,
sui campi coltivati
e pur sui deliri miei il ciel gemea.

Triste è l’abbandono dai luoghi di fanciullo
delle ragazzate innocenti, dei sogni vaghi,
caro paese di spensierata libertà
dove avevo percepito i miei ideali.

Gocce minute spruzzano
su silenziosi occhi
addio amici,
compari di istanti perduti.

Dalle selve parean le piante porgermi il saluto,
salì dal piano su un venticello lieve
l’odor di borracina  e di terra umida.

Dove son nato

Si rincorrono come orme
i filari dei pioppi,
svaniscono senza fine  
dove scompare il fiume.

Le chiome dei castagni
roccaforti di questi territori,      
pane per il domani.

Di tanto in tanto terrazze di pianori
intravedi avvinghiate sui dolci clivi
terra di allusiva fertilità.

Nuda terra che offre misurati frutti
terra grigia di montagna
di ogni anfratto e dei folti boschi.

Dal basso il piano domina
dove si frastagliano le giogaie,
nel verde intenso opere musive,
casolari e metati.

Il manto di vegetazione
è un sentimento di pace
che rallegra l’aria di questa terra.

Chiesette e metati avvolti di fresco,
all’or del vespro al calar del crepuscolo
proteggono le preghiene della montagna.

Quando ritorno

Con passi svelti
rivedo la mia anima
ripercorrere i sentieri
nel bosco della gioventù.

Rivedo antichi ruscelli
dove al guado saltavo le sponde,
o il grosso castagno da aggirare.

Come la nebbia la gioventù
col trascorrere del tempo
si addentrava nel mio corpo.

Ghermiva la mia persona:
la libertà del falco,
l’agilità della rondine,
la furbizia della volpe.

Imparavano le mie labbra
a comunicare con il mondo,
ascoltare l’eco della vita.

Si impadronivano i mie occhi
delle bellezze del mondo,
la mente a meditar sull’uomo.

E come canestri si riempivano
di incombenze le mie spalle,
e tutto fu si  un costante rinnovo
dei miei immaturi anni.

Rio forcone

Allor proni
passavate il tempo
per capir la morte,
accettavate il pensiero
poiché nessun possa trattare
con quel che è immenso,
tanto immenso che scinde
al profondo giudizio.

Un giorno di freddo novembre
giunse con insolenti fauci,
latrando vi trovò
l’avida morte,
quel giorno tradì la notte.

Si frantumarono
le sommerse gallerie,
le vostre suppliche,
i pianti convulsi,
le abbattute volte
fra labirinti impervi.

Il baccanale dell’acqua,
vostra assassina
le buie catacombe,
pregne della vostra vita,
riscattavano in voi
il sacrilegio della loro eternità.

Nelle ghiaie riposano
ruvidi volti
ricchi del tempo passato,
ricce chiome
dalle sensazioni agri di un’età
da i sentori acerbi di anni perduti.

Un ugual sorte
sorelle tenebre fuggiasche
da conchiglie morte.

La sull’ermo colle
sgombri dalla madre roccia
silenti stanno
a rimirar l’ultima strada.

La strada di fondovalle

Come una biscia si snoda
fra fiume e monti
dove corrono eserciti stanchi,
cannoni che tuonano
pericolo per chi si arrischia provocarla
con il palio della vita.

Da quassù ti vedo
sminuendo l’emozionante incanto
della romantica vallata
spegnendone le libere eufonie
dell’assoluta pace
degli antichi richiami.

Squarciati i monti per incastrarti
fra pietrosi costoni domati
dall’avvilente reclusorio
di freddi reticolati.

Sotto pastelli di cielo
le verdi selve
i suoi snaturati confini
già patiscono l’aridità,
diffondersi di fetide esalazioni.

Uomo, la smania ti trascina
l’incessante fermento
ti sottomette,
sfidi il futuro
con l’angoscia avida d’imperio.

Ma nel tuo domani
come te che smani
lente vanno le stagioni,
osservano e indugiano
sull’ultime speranze
rendano onesto valutar
la ragione della tua sorte.

Cimitero di montagna

La ghiaiosa via fende
assillanti lembi
di mattonata terra
abusati dal sole,
e tu solatio rimani,
in te la vita si ferma
ogni gioia perisce.

Le tue cinta scolpite
nella grigia roccia di monte
le spoglie che nascondi,
in trincee gelide  di silenzio
dove creano inquietudini e angosce
e nella meditazione ogni forza
penetra le ingiallite lapidi
dove riposa l’alba con il tramonto.

I pensieri percorrono le vie del vento
rincorsi da scenari di sgomento
raccolgo il desiderio di vita,
sulla pelle arata dal tempo
ribelli le mie riflessioni aspettano
vessilli sconosciuti per cui lottare,
il tempo assale le sensazioni vive
le sue braccia  mollemente cedono
alla forza del tempo.

Mi specchio

Serchio che mi vedesti fanciullo           
sulla riva mi fermo
e ascolto il tuo canto.

Acqua che raccogli in cielo
e ci specchi mosaici di selve
io mi prono
libera amica che vai.

Vedo in te un’ombra traballante
che non conosco,
sento la mia voce insolita
che non comprendo.

Il fascino del vento ti accarezza
senza sfumare l’onda,
indosso a me la sua ingiuria
minaccia il suo castigo.

Lucente amica, osserva il ventre mio molle
scompiglia le tue onde
prendimi,
fa che io abbracci il mio corpo
per elevarmi, per elevarti.

Incaglierò la mia pena
sul fondo tuo seno
col fremito dell’infinito diletto,
sopra lo specchio azzurro
obliqui cerchi si estendano
fino a dissolversi lontano.

Desiderio di amare,
incanto di poesia,
ingordo mio nettare
scuoti  il genio della mia pazzia.

La polletta

Un dì tornai
inseguendo la tua voce
lungo la via maestra
e ti scorsi solitaria e affranta
o mia povera fonte.

Sorgente dei giorni spensierati 
come scultura nelle fresche sere
delle profumate primavere,
ora scivoli fra felci e muschio
e ansimando piangi.

Rimpiangi feste chiassose
gli amici paghi di poco piacere
di merende sui prati
delle tue gradevoli acque,
cose nuove, nuova vita,
decisero il tuo abbandono.

E’ ricomparsa un’altra primavera
e ti scopro abbandonata,
ricoperta di un tabarro di pietre
un lieve zampillo argentato
si sottrae dal tuo grembo.

Ti saluto amica polletta
tardo è il mio giorno
ma, cosa sarai per colui che si fermerà
il tuo corpo più canta, più disseta,
non potrai ricordare
le feste disordinate di noi
che ti eravamo amici.

Non potranno sentire gli schiamazzi
della gioventù
essa e sepolta viva
si agita  nell’incavo
di quel tabarro di pietra

Nonna Zeffira

Austera e solenne 
ma di rivelata dolcezza
la nonna consumava
l’ultima stagione
seduta sull’impagliata sedia.

Fra il chiaroscuro della cucina
dall’odor del focolare, 
ricordo la fermezza dei suoi occhi
velati del passato.

Come un ponte perituro
dimenticato il tempo,
dissolto quello sguardo
in pertugi nascosti
dove ogni cosa
si compie e si annulla.

Turbato ne, ricordo l’odore,
il pannello in vita,
il fazzoletto in testa a contener
il color ramato dei suoi capelli.

La saggezza matriarcale,
ancora ti penso
quando ancor fanciullo
ti vidi l’ultima sera.

La Polletta 2

Mi fermo e ammiro
la fonte ammutolita
un tempo ciarliera,
aiuola felice
dove la sera
si affacciavano le stelle.

Regno di silenzio e ombrosità
erano sovrani i castagni,
riposo per volti stanchi

Il sentimento si nutriva
a quel debole zampillo,
si rasserenava il cuore
all’esile gorgogliare.

Or vedo lo sconforto,
l’incuria mi addolora,
immobile tace
la pila assetata
e l’acqua non zampilla.

Un punto nero
è il pertugio della fonte
il silenzio ne è sovrano
solo i castagni le fanno compagnia,
suprema domina la quiete.

Rare son le passeggiate
il posto è una pietra abbandonata,
foglie secche e tanta incuria
di quella verde oasi
della passata mia primavera.

vorrei recitare dolci lodi
per poterla rianimar
ma incapace di parlare resta muta,
no non sopporto tutto questo
e l’animo mio  si lagna
di tanta tristezza.

Bolognana 2

Pigramente riposi
alla verzura delle selve intorno,
arroccata al pendio
dove l’antica frana deprime
fino a lambire il Serchio
che scorre a valle.

Accarezzata dalla nenia
delle selve
che cingi come diadema,
salda rivolgi lo sguardo al cielo
o mia Bolognana.

Dentro il tuo guscio
di cardo arde la vita,
su per le rughe
in silenzio passa il tempo.

Tu ti addolori
mentre da madre pensi
a quei tanti tuoi figli che
laggiù sotto il monte riposano,
e a quelli lontani
che rimpiangono il passato
e l’amore tuo.

Ti angosci,
con timore gli mandi un bacio
e ansiosamente brami
il loro abbraccio.

Ritorno a casa

Nel grigiore del mio paese
intravedo solo i contorni delle rughe
incartate dalle selve,
semitoni sfumati
di vegetazione novella,                                               
delicato ventre d’angelo.

Muretti  sgretolati,
ruderi taciti
di vecchi metati,
sull’aia il pozzo
dal bordo segnato 
dal tempo.

Pietre scolpite,
avanzi del molino
un tempo odoroso di farine,
sguardo affascinato
sulle cime solcate da rimanenti
gole nevose.

Arabeschi  di riverbero
rubati al cristallo del torrente,
che piano fantastica tra i sassi.

La mia contorta anima
alla terra silente,
coperta di muschio
dai petali felpati,
in eterno commiato
che nelle rughe nasconde
ricordi vaghi di gioventù.

La mia reggia

Isolata reggia
addossata alla sommità del monte,
religioso riposo,
agreste gioia
della primaria esistenza.

Abbandonare l’anima,
garrire di rondini
dal primitivo rifugio,
leggiadre colombe,
cicale ciarlone,
frescure che si spingono
dalla selva.

Dardi d’oro sulle fronde
di castagni eterni,
ascolto il silenzio
ora vivace
ora quieto.

Riposare ai nuovi venti
cancellare il passato
oggi è la bella stagione.

Dai poggi corre l’acqua nel fosso
concerti di violini
dolci melodie
tempo appagato.

Dal colle della Borella

Nel tramonto sparso
dei profumi della calura,
ammiro giù nella valle,
e m’innamoro
di superba bellezza.

Al confine della selva
pigro scompare il giorno,
tornano i merli al nido
raccontano storie di luoghi fatati.

Il falco plana sull’antica quercia
in un vagare di volpi notturne,
nella verzura oscura
tutto bisbiglia e tutto tace.    

Al sussurrar di fole,
di folletti e gnomi
vive la selva un sogno
 nell’attesa del domani.

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